D02-01. Introduzione

I FONDAMENTI BIBLICI DI UN PROFETISMO MODERNO

 

Di Frank. B. Holbrook

Biblical Research Institute

Aprile 1982

Il dono profetico ha il suo fondamento nel bisogno di comunicazione tra la Deità e la famiglia umana caduta nel peccato. L’occultismo e la categoria del falso profetismo sono due sistemi che hanno agito, in tutta la storia umana, per ingannare e sviare gli ignoranti e gli incauti dal modo corretto di comunicare con Dio. D’altra parte, le modalità comunicative di Dio – fondamentalmente il dono profetico – sono delineate chiaramente nelle Scritture (Numeri 12:6; Amos 3:7; Luca 1:70).

Quattro parole (tre ebraiche e una greca) sono impiegate nelle Scritture per indicare lo strumento umano che interviene in tale forma di comunicazione. Ro’eh (1 Samuele 9:9; Isaia 30:10) e il più consueto chozeh (2 Samuele 24:11; Amos 7:12; 2 Re 17:13; ecc.) si riferiscono entrambi alla nozione di “vista” e sono tradotti comunemente con “veggente”. Sembrano esprimere l’idea che Dio apra gli “occhi”- alla comprensione del profeta – qualunque sia l’informazione o il messaggio che voglia trasmettere per mezzo del profeta.

Il significato della parola successiva, che è anche quella usata più spesso, vale a dire nabi, con il suo equivalente greco prophetes, lo si ritrova nei testi che seguono:

“L’Eterno disse a Mosè: ‘Vedi, io ti ho stabilito come Dio per il faraone, e tuo fratello Aaronne sarà il tuo profeta. Tu dirai tutto quello che ti ordinerò e tuo fratello Aaronne parlerà al faraone …’” (Esodo 7:1,2).

“Tu gli parlerai e gli metterai le parole in bocca. Io sarò con la tua bocca e la bocca sua, e vi insegnerò quello che dovrete fare. Egli parlerà per te al popolo; e così ti servirà da bocca e tu sarai per lui come Dio” (Esodo 4:15,16).

Da quanto espresso nei testi citati, nei quali Mosè e Aaronne dovevano rispettivamente impersonare il ruolo di Dio e di profeta, è evidente che il profeta (nabi) era considerato un portavoce designato da Dio stesso. Nella versione dei Settanta (Septuaginta), il termine che in questo caso sta al posto dell’ebraico nabi è prophetes, che ritroviamo anche nel Nuovo Testamento e dal quale deriva la parola profeta nella nostra lingua.

Prophetes è una parola composta dalla preposizione pro, che ha il significato di “dinanzi” – o “al posto di”, come in questo esempio – e dal verbo phemi, che vuol dire “parlare”. Quindi, in senso generale, il profeta è il portavoce di un altro. Ma, nel contesto biblico, il vero profeta è portavoce e interprete di Dio, cioè è un comunicatore divinamente ispirato, un interprete o un portavoce della Divinità. In tal modo i termini nabi – prophetes sottolineano l’aspetto della trasmissione proprio del ruolo profetico. Considerate complessivamente, le quattro parole disegnano un ruolo e una funzione unici: un profeta è colui che riceve delle comunicazioni da parte di Dio e ne trasmette le intenzioni al suo popolo.

Risulta quindi prevedibile che l’idea del parlare per Dio possa assumere la diversa sfumatura di predicare per Dio. Di conseguenza, alcuni ritengono che il dono della profezia nel Nuovo Testamento a volte si riferisca più semplicemente all’esposizione della parola nella predicazione (Lenski, p. 760, su Romani 12:6). Alcuni lo interpretano come il “dono della predicazione ispirata” (International Critical Commentary (ICC) su 1 Corinzi 13:2, p.287), o di “una potente predicazione” (ICC su 1 Corinzi 12:10, p.266). Tuttavia, dal contesto di 1 Corinzi 12-14 , risulta chiaro, sebbene l’azione del “profetizzare” possa talora assumere la forma di una predicazione efficace (1 Corinzi 14:3), che solo la predicazione basata sulla rivelazione divina corrisponde pienamente alla nozione di profetismo (1 Corinzi 14:30) e non quella che si limita alla semplice chiarificazione delle Scritture con l’aiuto dello Spirito, cosa che può capitare a ogni ministro che parla per Dio.

Il Nuovo Testamento attesta una differenza tra il semplice ministero della Parola e il ministero profetico, tra l’“insegnante” e il “profeta” (Efesi 4:11; 1 Corinzi 12:28). La predicazione di Barnaba e Paolo sui temi della salvezza si rassomiglia molto. Ma mentre l’uno parlava fondandosi sull’autorità della Parola scritta, l’altro lo faceva con l’autorità addizionale della rivelazione divina (Galati 1:11,12).

Se alcuni studiosi ritengono che “l’azione profetica” (propheteuo) nel Nuovo Testamento si riferisca talvolta alla predicazione, si deve ammettere che una categoria di persone, le quali ricevettero e trasmisero rivelazioni specifiche e dirette da Dio, ebbero la funzione vera e propria di profeti. (Luca 1:25-38; Atti 11:27,28; 13:1; 15:32; 21:9). In che cosa consistette la loro funzione?

D02-02. Il ruolo del dono profetico nel NT

Nelle fondamentali liste dei doni spirituali presenti nel Nuovo Testamento il “dono profetico” viene annotato come il secondo, tra quello degli apostoli (il primo) e quello di insegnanti (il terzo) (cfr.1 Corinzi 12:28-30; Efesi 4:11). Tale dono non sostituisce il ruolo degli apostoli, ma la sua funzione influenzò da vicino sia gli apostoli sia i membri della chiesa in generale. Alcuni degli apostoli stessi furono rivestiti con questo dono. Le attività delle persone che ne furono dotate nel Nuovo Testamento possono essere riassunte come segue:

1. Erano a volte incaricate di avvertire di difficoltà imminenti (Atti 11:27-30; 20:23; 21:10-14). Nel primo esempio (Atti 11), l’annuncio di una carestia incombente portò come risultato la creazione di un legame fraterno tra i gentili convertiti di Antiochia e i giudeocristiani di Giudea. Questi, in genere contrari alle usanze dei gentili, di buon grado inviarono dei soccorsi ai Giudei, loro fratelli in Cristo.

2. Grazie a tale dono ebbe inizio l’attività delle missioni straniere (Atti 13:1,2). Ebbe anche la funzione di individuare le località dove i primi missionari dovevano lavorare (Atti 16:6-10). Nel secondo viaggio missionario paolino si dice che l’apostolo fu accompagnato da Sila, un profeta (Atti 16:40).

3. Nel corso di una crisi dottrinale, ebbe la funzione di incoraggiare e di confermare la comunità nella vera dottrina. La crisi riguardò la relazione tra i rituali giudaici e la salvezza dei gentili convertiti. Un concilio ecclesiastico rappresentativo prese una decisione in armonia con le direttive dello Spirito (Atti 15), benché questa non fosse accettata intimamente da tutti. La controversia era esplosa ad Antiochia e alla sua comunità venne indirizzata per lettera la decisione del concilio. Giuda e Sila svolsero temporaneamente un’attività pastorale in questo luogo: “Giuda e Sila, anch’essi profeti, con molte parole li esortarono [parakaleo: appellarsi, incoraggiare, esortare] e li fortificarono [episterizo: rafforzare, consolidare]” ( Atti 15:32).

4. I profeti edificarono, incoraggiarono e consolarono la chiesa. “Chi profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione [oikodomè, che in senso metaforico indica la costruzione della vita spirituale), di esortazione [paraklesis: incoraggiamento, esortazione] e di consolazione [paramuthia: incoraggiamento, conforto, consolazione]” (1 Corinzi 14:3).

5. Il profeta tese (in collaborazione con gli altri doni) a unificare la chiesa nella vera fede e a proteggerla dalle false dottrine. “E lui che ha dato alcuni come … fino a che tutti giungiamo all’unità della fede … affinché non siamo più come bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina per la frode degli uomini, per l’astuzia loro nelle arti seduttrici dell’errore. (Efesi 4:11-15).

6. I profeti, in collaborazione con gli apostoli prestarono il loro aiuto nella fondazione della chiesa. “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare” (Efesi 2:20; cfr. 3:5; 4:11).

“Il binomio apostoli-profeti può contribuire ad avvicinare fra loro l’Antico (profeti) e il Nuovo Testamento (apostoli) in quanto entrambi rappresentano il fondamento dell’insegnamento della Chiesa. Ma il fatto che nel testo l’ordine delle parole sia invertito (non “profeti e apostoli”, ma “apostoli e profeti”) suggerisce che probabilmente ci si riferisca a dei profeti neotestamentari. Se le cose stanno così, il loro accostamento agli apostoli nell’opera di fondazione della Chiesa risulta significativo. Si deve fare quindi riferimento a un piccolo gruppo di insegnanti ispirati che, in associazione con gli apostoli, resero insieme testimonianza a Cristo e il cui insegnamento, derivato dalla rivelazione (Efesi 3:5) ebbe un ruolo centrale”(John R. W. Stott, God’s New Society [Downers Grove, IL: Intervarsity Press, 1979], p.107. Per un punto di vista analogo, vedi W.R. Nicoll, The Expositor’s Greek Testament, ed. [Grand Rapids, MI: Wm B. Eerdmans Publishing Company, reprint 1961], 3: 299, 300).

D02-03. Il Prolungamento del dono profetico

Come abbiamo già notato, il Nuovo Testamento enuncia una dottrina dei “doni spirituali”, o charismata, che significa “doni della grazia” (1 Corinzi 12; Efesi 4). Quest’azione, per la quale lo Spirito Santo riveste di sé singoli membri della chiesa, è volta al “perfezionamento dei santi, per l’opera del ministero, per l’edificazione del corpo di Cristo” (Efesi 4:12). “Ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto” ha il dovere di impiegarlo al servizio della chiesa per assisterla nel progresso della sua opera sulla terra (1 Pietro 4:10,11; cfr. Romani 12:6,7).

Poiché i doni devono essere continuamente accordati nel modo che lo Spirito reputa più adatto, “fino a che tutti giungiamo all’unità della fede e della piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato d’uomini fatti, all’altezza della statura perfetta di Cristo” ( Efesi 4:13), è ovvio che questi debbano operare fino al compimento del ministero della chiesa e dell’opera del giudizio.

Non c’è alcuna prova nella Scrittura che Dio voglia ritirare il dono profetico o qualsiasi altro dono prima del ritorno di Cristo (cfr. 1 Corinzi 13:8-12). Invece, l’antica profezia di Gioele 2:28-32, che viene riproposta da Pietro (Atti 2:16-21), preannuncia una grande, finale, effusione dello Spirito Santo e un’azione decisiva svolta dai doni spirituali. In connessione con questo, è appropriato notare che anche i falsi profeti saranno attivi alla fine dei tempi (Matteo 24:24).

D02-04. Il Canone Biblico e i Doni Spirituali

Le Sacre Scritture, composte di Antico e Nuovo Testamento, sono esse stesse il prodotto dell’azione del dono profetico. Indirettamente, proprio le Scritture indicano un canone di scritti sacri. Le varie parti dell’Antico Testamento erano, nelle loro suddivisioni, già note e comprese al tempo di Gesù. In Matteo 23:35, Gesù indica indirettamente i suoi limiti esterni – da Genesi a 2 Cronache (l’ultimo libro della Bibbia ebraica) – e in Luca 24:27,44 la sua tripartizione – la Legge di Mosè, i profeti e gli scritti, il primo dei quali erano i Salmi.

La lettera agli Ebrei descrive così i modi in cui la rivelazione si presenta a noi: “Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebrei 1:1,2). A partire da Mosè (nel XV secolo a.C.) ha avuto inizio la registrazione delle rivelazioni divine; nel corso dei secoli altri profeti fissarono per iscritto i messaggi affidati loro nel modo in cui Dio ritenne più adatto, per promuovere la comprensione del suo popolo. Infine, Dio scelse di rendere la sua ultima rivelazione per mezzo di suo Figlio. Gesù Cristo ha dato alla famiglia umana la rivelazione più grande che un uomo potesse ricevere (Giovanni 1:18). Il Nuovo Testamento è l’ispirata testimonianza apostolica e l’interpretazione di Gesù Cristo e del suo insegnamento. Se la sua vita e la sua rivelazione sono irripetibili, l’attestazione che gli scritti neotestamentari ne danno è altrettanto irripetibile. Osservate il seguente schema:

schema

Dato che la vita di Cristo sulla terra e l’interpretazione che ne danno gli apostoli, ci consegnano la definitiva rivelazione di Dio, nessuna funzione del dono profetico (in quanto parte dei doni spirituali) successiva al Nuovo Testamento, può uguagliare, sostituire, oppure aggiungere qualcosa alla sua testimonianza unica. Anzi, tutte le successive rivendicazioni del dono profetico devono essere messe alla prova dalle Scritture (1 Tessalonicesi 5:19-21; 1 Giovanni 4:1-3; Matteo 7:15-20).

La funzione post-canonica del dono profetico, ovunque esso appaia, sarà simile alla funzione avuta al tempo degli apostoli, e continuerà a prodursi con l’autorità dello Spirito che parla alla chiesa per suo mezzo. Tale funzione può così essere riassunta:

Una manifestazione post-canonica del dono profetico

  1. Indicherà la Scrittura come il fondamento della fede e della condotta;
  2. Illuminerà e chiarificherà gli insegnamenti già presenti nelle Scritture;
  3. Applicherà i principi della Scrittura alla vita di tutti i giorni;
  4. Può essere un catalizzatore che dirige la chiesa verso il compimento del mandato affidatole nelle Scritture;
  5. Può assistere la chiesa nella sua edificazione;
  6. Può rimproverare, avvertire, istruire, incoraggiare, consolidare e favorire l’unità della chiesa nelle verità della Scrittura;
  7. Può avere la funzione di proteggere la chiesa dalla falsa dottrina e di consolidare i credenti nella verità.

D02-05. Manifestazione del Dono alla Fine dei Tempi

Gioele 2:28-32. Vivendo alla “fine dei tempi” (nella prospettiva dell’Antico Testamento; 1 Pietro 1:20; Ebrei 1:2), l’apostolo Pietro vide nell’effusione dello Spirito, manifestatasi alla Pentecoste per mezzo del dono delle lingue (Atti 2), un adempimento della profezia di Gioele.

Tuttavia, la Pentecoste pare che sia stata piuttosto un adempimento solo parziale, poiché Gesù pone i segni nel sole e nella luna, menzionati da Gioele, dopo l’epoca oscura della persecuzione e in maggiore prossimità all’avvento del “grande e terribile giorno del Signore” (Gioele 2:31). Inoltre, Gioele fa riferimento in modo specifico a una manifestazione del dono della profezia, pertanto una realizzazione completa dell’antica predizione di Gioele richiederebbe una manifestazione del dono profetico alla fine dei tempi.

Matteo 7:15-20; 24:24. Poiché Gesù preannunciò l’apparizione di “falsi profeti” alla fine dei tempi, tale predizione costituisce una prova presunta della vera manifestazione di tale dono.

1Corinzi 12; Efesi 4; ecc.  La dottrina neotestamentaria dei “doni spirituali” (che includono il dono profetico) non è mai stata abrogata. Se il passato può dare qualche indicazione per il futuro, dobbiamo prender nota del fatto che il dono profetico in genere operò in periodi di crisi o carichi di significato speciale: Noè prima del diluvio; i profeti maggiori e minori si raggruppano nei periodi critici della storia d’Israele, quando Assiria, Babilonia e Persia minacciano l’esistenza di Israele, o vi influiscono profondamente; Giovanni Battista prima della venuta di Cristo; ecc.

Sarebbe quindi ragionevole attendersi qualche genere di manifestazione profetica prima della conclusione del tempo di grazia e del secondo avvento, che rappresentano la conclusione del piano della salvezza.

Apocalisse 12:17; 19:10. Se i nostri pionieri mettevano in risalto la predizione di Gioele 2 per difendere una manifestazione legittima del dono di profezia, non erano però indifferenti alle implicazioni di Apocalisse 12: 17 e 19:10. In un articolo sulla Review and Herald del 16 ottobre 1855, James White affermò:

“Ma riferiamoci a Gioele 2:32 per vedere dove egli situa la profezia. ‘E avverrà che chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato, poiché sul monte Sion e a Gerusalemme vi sarà salvezza, come ha detto il Signore, così pure tra i superstiti che il Signore chiamerà’. È compito del rimanente testimoniare di queste cose. È il rimanente (cioè l’ultima porzione della chiesa) che osserva i comandamenti di Dio e ha la testimonianza di Gesù Cristo (cioè lo Spirito di Profezia, secondo Apocalisse 19:10), nella maniera più certa, che ha il compito di diffondere questo messaggio di liberazione. ‘Chiunque invocherà il nome del Signore’, in un tempo di tribolazione quale non era mai avvenuto prima, condividerà con gli altri tale liberazione. ‘Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui?’ (Luca 18:7). La stessa invocazione del nome del Signore è simboleggiata dall’angelo (Apocalisse 14:15) che grida a gran voce a colui che siede sulla nuvola: ‘Metti mano alla tua falce e mieti; poiché è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura’.

Dio ha sempre manifestato la sua potenza in favore dei suoi figli secondo le loro necessità e quelle della opera che devono compiere. Possiamo mai supporre, anche solo per un momento, che il popolo di Dio attraverserà i pericoli degli ultimi giorni e fronteggerà il tempo di tribolazione, incomparabile con ogni altro nel passato, senza che Dio si manifesti per mezzo di quei doni che egli stesso ha riservato per la chiesa? È così, in verità. Dio ha promesso, tramite il profeta Gioele, di compiere grandi cose per il rimanente, ‘prima che venga il grande e terribile giorno del Signore’”.

1. Il libro dell’Apocalisse tratteggia la figura di due donne: una pura, rivestita di luce (Apocalisse 12), e una caduta, designata con il nome di “Babilonia la grande”. In un certo senso le due donne simboleggiano la stessa entità: il cristianesimo. Entrambe hanno dei discendenti (12:17; 17:5). Apocalisse 12 sembra delineare l’immagine dei leali seguaci di Dio e il corso della loro storia; Apocalisse 17 simboleggia lo sviluppo e il corso dell’apostasia cristiana.

La donna pura che si nasconde nel deserto per sfuggire alla persecuzione sia del dragone (12:17) sia della donna caduta (17:6), nella sua essenza rappresenta una pluralità di gruppi fedeli al Signore. Tali gruppi (benché non siano necessariamente puri sotto ogni aspetto della dottrina, si veda a proposito la storia simbolica della chiesa in Apocalisse 2:3) conservarono la fede in Dio e la lealtà alle Scritture durante l’età buia del Medio Evo. Come deve essere identificato allora il “rimanente della sua discendenza” (“il resto della sua progenie” secondo altre versioni): deve essere compreso come un rimanente del cristianesimo della fine dei tempi in senso generale, oppure deve essere delimitato come un gruppo specifico di cristiani?

2. Il libro dell’Apocalisse sembra descrivere i genuini seguaci di Dio alla fine dei tempi secondo due diverse classificazioni: (a) “quelli che restano della discendenza di lei che osservano i comandamenti di Dio (12:17), e (b) il popolo di Dio che è in Babilonia (18:4). Questo implicherebbe – tecnicamente – che il gruppo designato come “rimanente” in Apocalisse 12 non costituisca la totalità dei veri cristiani in senso generale, ma sia qui delimitato piuttosto come gruppo specifico dotato di precise caratteristiche: essi osservano i comandamenti di Dio e hanno la testimonianza di Gesù.

Inoltre, è ragionevole ritenere che il rimanente, in altre parole l’ultima propaggine del popolo di Dio cui si riferisce Apocalisse 12:17, si farà anche portatore dell’ultimo messaggio di Dio. Tale messaggio è descritto in Apocalisse 14:9-12 come quello del “terzo angelo”. Si tratta di un messaggio specifico che comprende dei punti ben determinati e anche i contenuti del messaggio dei primi due angeli (vedi Apocalisse 14:6-14). Se quelli che compongono il “rimanente” di Apocalisse 12 sono gli estensori del messaggio del terzo angelo (Apoc.14), allora dovrebbero necessariamente rappresentare un gruppo specifico di cristiani, che si distinguono per le caratteristiche di quel particolare messaggio. Storicamente gli avventisti del settimo giorno hanno ritenuto di adempiere il ruolo del terzo angelo; di conseguenza abbiamo naturalmente visto il nostro movimento come simboleggiato in Apocalisse 12:17.

3. “La testimonianza di Gesù” (12:17). La questione in questo caso consiste nel chiedersi se la frase denoti una manifestazione del dono profetico alla fine dei tempi in un gruppo definito come “il rimanente della discendenza di lei”.

L’espressione “testimonianza di Gesù” ricorre sei volte nel libro dell’Apocalisse (1:2,9; 12:17; 19:10; 20:4). Il primo problema concerne la sua traduzione. Ce ne sono due grammaticalmente possibili:

  1. La testimonianza intorno/concernente Gesù (genitivo oggettivo) = ciò che i cristiani  testimoniano intorno a Gesù; “coloro che rendono testimonianza a Gesù”.
  2. La testimonianza da/ proveniente da Gesù (genitivo soggettivo) = i messaggi da parte di Gesù alla chiesa.

Gli elementi che possiamo trarre dall’uso di questa espressione nel libro dell’Apocalisse suggeriscono che dovrebbe essere compresa come un genitivo soggettivo (una testimonianza da parte o per mezzo di Gesù) e che tale testimonianza è resa attraverso la rivelazione profetica. Ecco alcuni altri documenti in proposito:

a. Apocalisse 1:1,2. “Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi … e che egli ha fatto conoscere mandando il suo angelo al suo servo Giovanni. Egli ha attestato come parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo tutto ciò che ha visto”.

In questo contesto è evidente che “Rivelazione di Gesù” designa una rivelazione da parte o per mezzo di Gesù a Giovanni, il quale, di conseguenza la registra come testimonianza proveniente da e per mezzo di Gesù. Entrambe le espressioni al genitivo esprimono meglio il loro senso all’interno del contesto come genitivi soggettivi e si accordano con le parole conclusive di Cristo in questo libro: “Colui che attesta queste cose, dice: ‘Sì, vengo presto!’Amen!” (Apocalisse 22:20)

Nel suo commento alla stessa espressione in Apocalisse 19:10, James Moffat scrive:

La testimonianza di Gesù equivale in pratica a Gesù che testimonia(2:20). È l’autorivelazione di Gesù, (secondo il capitolo 1:1, dovuta in ultima analisi a Dio stesso) la quale spinge all’azione i profeti cristiani. È lui che dà contemporaneamente l’impulso e il soggetto delle loro affermazioni. (W. Robertson Nicoll, The Expositor’s Greek Testament, ed. [Grand Rapids : Wm. B. Eerdmans Publishing Company, 1961 reprint ] v. 5, p 465)

b. Se paragoniamo Apocalisse 19:10 con 22:9 troviamo un collegamento tra la testimonianza di Gesù e la funzione profetica:

19:10 – “Guardati dal farlo. Io sono un servo come te e come i tuoi fratelli” e

22:9 – “Guardati dal farlo. Io sono un servo come te e come i tuoi fratelli” e

19:10 – “come i tuoi fratelli che custodiscono la testimonianza di Gesù”

22:9 – “come i tuoi fratelli, i profeti…”

c. Apocalisse 19.10 definisce la testimonianza che proviene da Gesù come “lo spirito della profezia”. Per quanto James Moffat consideri la frase come una glossa, ne analizza il significato a partire dalle implicazioni di un genitivo soggettivo.

Poiché la testimonianza di (cioè resa da) Gesù è (cioè costituisce) lo spirito di profezia”. Questo … definisce in modo specifico i fratelli che portano la testimonianza di Gesù come possessori dell’ispirazione profetica. (Ibid.)

4. L’espressione “spirito di profezia” può essere compresa in tutti e due i sensi:

  1. Può riferirsi allo Spirito Santo che mette per iscritto o veicola la rivelazione profetica. “Degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo” (2 Pietro 1:21). Espressioni come lo “Spirito della grazia”, “lo Spirito della verità”, ecc., designano lo Spirito che conferisce la grazia o la verità. Nello stesso modo la testimonianza che proviene da Gesù può essere identificata oppure collegata con la funzione che lo Spirito possiede di ispirare il profeta con una rivelazione da parte di Dio (cfr. 1:10). Tale rivelazione è, in effetti, una testimonianza da parte di Gesù. Questa interpretazione della frase si accorda con 1 Pietro 1:11, che fa notare come i profeti dell’Antico Testamento fossero ispirati dallo “Spirito di Cristo” e pertanto trasmisero una sua testimonianza.
  2. L’espressione “spirito di profezia” può essere anche compresa come il carattere fondamentale o l’essenza distintiva della profezia. Gesù che porta la sua testimonianza è l’essenza vera o l’anima della profezia. James White lo espresse così: “Lo spirito, anima e sostanza della profezia, è la testimonianza di Gesù Cristo. Oppure, la voce dei profeti relativamente al piano e all’opera dell’umana redenzione, è la voce del Redentore” (Life Sketches [1880 ed.], 335-36, citato in SDA Encyclopedia, art., “Spirit of Prophecy”).

5. In entrambi i casi, il passo di Apocalisse 12:17 mette in evidenza il fatto che il rimanente ha (avente, participio presente di echo) la testimonianza profetica da parte di Gesù. Si tratta di un possesso che il rimanente – secondo i testi citati- ha o detiene mentre il dragone compie la sua offensiva finale contro il popolo di Dio alla fine dei tempi. (Vedi Arndt e Gingrich, A Greek-English Lexicon sull’uso di marturia [testimonianza in Apocalisse]).

6. Se la “testimonianza di Gesù” è veramente la testimonianza resa da Gesù alla sua chiesa attraverso il canale profetico, allora si pone la seguente domanda: la caratterizzazione di Apocalisse 12:17 sottolinea il possesso, da parte del rimanente, delle Sacre Scritture, Antico e del Nuovo Testamento, oppure di una manifestazione post-canonica dei doni spirituali nella forma del dono profetico? La prima asserzione appare un’idea troppo ovvia perché lo scrittore profetico la sottolinei, mentre una manifestazione del dono profetico nel contesto della fine sarebbe più significativa.

Questa profezia concernente il possesso, da parte del rimanente, della testimonianza profetica resa da Gesù, può essere paragonata ai tanti riferimenti al Messia nei Salmi davidici. Un lettore dei tempi dell’Antico Testamento avrebbe collegato a Davide molte, se non tutte, le affermazioni di questi salmi. In seguito – dopo la vita, la morte espiatoria e la resurrezione di Cristo – queste dichiarazioni sono state applicate in modo più vasto e più perfetto al Messia, il Figlio di Davide. Nella stessa maniera, nel compimento di Apocalisse 12:17, in seguito allo sviluppo del movimento del terzo angelo, possiamo ora vedere quanto non era evidente prima di tale sviluppo: cioè che il possesso, da parte del rimanente, della “testimonianza di Gesù” comprende la coinvolgente verità che Cristo ha scelto di parlare al suo popolo, ancora una volta, per mezzo del dono profetico. E tutto questo avviene quando la chiesa deve affrontare una miriade di sfide, in quanto si trova davanti al tempo della fine e agli atti conclusivi del giudizio divino.